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regia
George Clooney
cast
Matt Damon, Julianne Moore, Noah Jupe, Glenn Fleshler, Alex Hassell, Gary Basaraba, Oscar Isaac, Jack Conley, Karimah Westbrook, Tony Espinosa, Leith Burke, Josh Brolin, Woody Harrelson, Michael
durata
105
nazione
USA
uscita
6 dicembre 2017
genere
Commedia
distribuzione
01 Distribution
produzione
Film d'essai:
Si
giudizio CNVF
altre info su
Suburbicon, la black comedy diretta da George Clooney da una vecchia storia dei fratelli Coen, nasconde sotto l’apparenza idilliaca un’implacabile ferocia, dipingendo il meglio e il peggio dell’umanità nelle azioni della gente comune. Il film è lo specchio ideale di un gioioso sobborgo californiano degli anni 50, fatto di casette allineate, giardini curati, gonne a ruota, occhialoni e colletti abbottonati, quasi quanto i suoi impeccabili abitanti. Il più abbottonato di tutti è il protagonista Gardner Lodge (Matt Damon), uomo di specchiata virtù che abita insieme alla sua famiglia in una delle villette pastello costruite con lo stampino. La sua pacifica esistenza viene stravolta da una brutale violazione di domicilio, sarà allora che, riscontrando la stessa lentezza e placidità nelle attività investigative, deciderà di farsi giustizia da solo. L’uomo perbene, consumato dal ricatto e dalla vendetta, è il primo a svelare la maschera di conformismo e ipocrisia che nasconde le meschinità della periferia e della natura umana. Nel cast anche Julianne Moore e Oscar Isaac. Il film nasce nel 1986 come sceneggiatura di Ethan e Joel Coen e diventa nel 2005 un film da affidare a Clooney regista e attore. Nel 2015 George decide di uscire dal cast, chiamando al suo posto, nel ruolo del protagonista, Matt Damon e invertendo la tendenza ad apparire, in parti più o meno significative, nelle sue stesse opere. Al copione dei talentuosi fratelli (dai quali è stato diretto in Fratello, dove sei? Burn After Reading e Ave, Cesare!) l’autore di Good Night, and Good Luck fa contribuire il suo fido collaboratore Grant Heslow e chiama a recitare Julianne Moore, Oscar Isaac e Woody Harrelson, che però esce subito di scena. Arrivano quindi Glenn Fleshler, il piccolo Noah Jupe e una serie di altri interpreti e si comincia a girare.
Suburbicon è una deliziosa località californiana, abitata sul finire degli anni ’50 da una colonia crescente di famiglie bianche middle-class. La qualità della vita a Suburbicon è superiore alla media nazionale, le casette a schiera sono color pastello e hanno un bel giardino, gli uomini sono tutti impiegati, le donne curano casa e figli e sfornano profumate torte di mele. Quando la città tocca quota 60.000 abitanti, arriva una famiglia afroamericana, i Meyers, “negri” che portano scompiglio nella comunità. La loro abitazione si affaccia a quella dei Lodge, per nulla razzisti, ma con ben altri pensieri per la testa. Infatti la signora Lodge Rose (Julianne Moore), invalida sulla sedia a rotelle, rimane uccisa per mano di due bruti rapinatori che sorprendono in casa anche il marito Gardner (Matt Damon), il loro figlioletto Nick e la sorella gemella di Rose, Margaret. Passa poco tempo, mentre i cittadini cominciano ad assediare gli ultimi arrivati, presso i Lodge Margaret subentra a Rose in tutti i sensi. Si rifanno vivi i due assassini ancora in libertà.
George Clooney porta sullo schermo un’idea dei fratelli Coen partorita a metà degli anni ’80, innestandovi la storia vera dei Myers, una coppia di neri con un figlio di dieci anni, che nel ’57 occupò un’abitazione a Levittown, cittadina nata in Pennsylvania per ospitare diciassettemila famiglie di razza caucasica. Come dichiara lo stesso regista, il film si rivolge all’America trumpiana dei muri, delle politiche xenofobe, delle assurde rivendicazioni dei bianchi, nostalgici proprio degli anni del boom economico, dove le perfette famigliole americane ritratte sulle scatole di biscotti e dentifrici, nascondevano il più bieco conservatorismo e tremavano di fronte a tutto ciò che era lontano da quel modello fasullo (torna in mente Edward mani di forbici).
Un film politico, come piace a Clooney, ma con un gergo diverso da Good Night, and Good Luck o Le Idi di Marzo. Il territorio è piuttosto quello delle dark comedies dei Coen, stracolme di venature ironiche sempre più nere via via che la trama si dipana, fino a trasformarsi in puro orrore.
L’orrore in questo caso è duplice: da una parte l’escalation violenta nei confronti dei Meyers che comincia con gli sguardi indignati delle perfette casalinghe profumate di autentico americanismo wasp e finisce con l’innalzamento di barricate e veri e propri assalti; dall’altra parte del cortile il domino di eventi che sfugge a Gardner Lodge e fa precipitare la quiete domestica in un inferno. A Suburbicon qualcosa ha schiantato l’armonia dei magnifici anni ’50, un demone è entrato dalla finestra di Pleasentville, mostrando la vera faccia dei nipotini di Blondie e Dagoberto (fumetto e serie Tv). E non è incarnato in tre negri, come si vocifera tra una permanente e un thè pomeridiano a Suburbicon. Il demone ha la pelle chiara, l’aspetto inquietante dei vicini di casa di un magnifico cortometraggio da Oscar di Norman McLaren, Neighbours (1952), apologia pacifista tradotta nell’azione distruttiva di due uomini in lotta per un fiore. Avidità, egoismo, pochezza intellettuale, sono i bersagli di Clooney, che eredita dai Coen il copione ideale per raccontare la deriva statunitense post-Obama. O meglio il ritorno (più che un rigurgito) pericoloso dell’intolleranza razziale fino alla sua istituzionalizzazione, secondo un tema ideologico ancora vivo che identifica nelle minoranze (diventate maggioranza e ossatura del paese, se qualcuno non se ne fosse accorto) l’origine di ogni male.
La metafora è piuttosto scoperta e Clooney non fa nulla per celarla: mentre la cittadina tutta dichiara guerra ai Meyers resistenti e “gandhiani”, a due passi dal campo di battaglia si consumano atrocità inenarrabili, i rispettabili Lodge hanno mostrato il lato B delle confezioni di biscotti e dentifrici, ciò che i primi schermi televisivi non mostrano dell’America a stelle e strisce.
Se nella prima metà del film ci chiediamo quanto Clooney ci sia in questo racconto dei Coen, nella seconda parte nerissima iniziamo a domandarci quanto dei Coen ancora rimanga in questo film di Clooney, perché se è vero che Damon e Moore hanno indubbiamente parenti a Fargo, è pur vero che la frantumazione della famiglia made in Usa, che nemmeno più i valori della conservazione dello stesso nucleo famigliare riescono a salvare, riporta una mediocrità pericolosa che fa da specchio alla politica attuale. Un finale non proprio conciliante come avrebbero voluto i produttori è tutto sulle spalle del piccolo Nick, testimone della disfatta, un sopravvissuto che all’orizzonte vede la vita nell’amicizia con un coetaneo nero.
Commento tratto da www.cinequanon.it - Scheda pubblicata il 9 gennaio 2018 .